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venerdì 27 febbraio 2009

Il popolo delle miniere - Il 3 febbraio, di nuovo alla sbarra per il processo d’appello i ribelli del fosfato tunisino

da: Il Manifesto del 29.01.2009
di Omeyya Seddik

GAFSA · «Quello che fanno è inaccettabile. Di fronte a Dio e di fronte agli uomini», dice Yasmina Slama-Hlaimi. Si riferisce al trattamento che le autorità hanno riservato al popolo delle miniere. E aggiunge: «Finché non sarà rispettato il diritto, finché non verrà migliorata la condizione dei disoccupati, delle donne, degli operai, dei giovani nelle università, finché non cesseranno le ingiustizie e la corruzione, noi non ci fermeremo.
Finché dovremo lottare, quelli di noi che moriranno saranno dei martiri e quelli che sopravviveranno saranno felici… Preferisco che dieci di noi muoiano perché quaranta possano vivere degnamente, piuttosto che morire tutti in silenzio a poco a poco».
Slama-Hlaimi ha quasi settant’anni, è vedova di un minatore e ha tirato su da sola una figlia e sei maschi a Redeyef.
Questa città della regione di Gafsa, nel sudovest vicino alla frontiera algerina, è il principale focolaio di rivolta del bacino minerario del fosfato tunisino.
Da gennaio 2008, un movimento di rivolta di grande portata ha scosso questa regione di oltre 300.000 abitanti, che è fra le più povere del paese e ha un tasso di disoccupazione ufficiale pari al doppio della media nazionale. La Compagnia dei fosfati di Gafsa, principale datore di lavoro della regione, assume sempre di meno, rende precaria la maggior parte della manodopera e distribuisce qualche posto di lavoro stabile in base a un sistema di corruzione e di nepotismo gestito insieme ai dirigenti del Partito al potere e ad alcuni burocrati sindacali. La Compagnia, che sfrutta la principale risorsa naturale del paese da oltre un secolo, è stata gestita a lungo dal potere francese secondo la logica predatrice tipica del rapporto coloniale (quella di uno sfruttamento intensivo delle risorse e della manodopera locale, che non si preoccupa della riproduzione delle condizioni sociali di vita e di produzione, che non investe localmente né sviluppa servizi e infrastrutture pubbliche).
Quando, sotto il protettorato francese, gli abitanti della regione si opposero alla sorte che gli era riservata, l’esercito tirò sulla folla. Così accadde durante lo sciopero dei minatori del marzo 1937, la cui repressione fece 17 morti.
Nel marzo 1956, la Tunisia ottenne l’indipendenza politica, i francesi se ne andarono e il potere del presidente Burghiba e poi quello del presidente Ben Ali applicarono al bacino minerario di Gafsa una politica poco diversa da quella dei loro predecessori. Durante tutto il XXmo secolo, il popolo delle miniere si è costruito una lunga tradizione di lotte anticoloniali e operaie. Dall’inizio del 2008, ha saputo organizzare un movimento molto popolare che ha riunito diverse categorie sociali: disoccupati, lavoratori precari, donne e vedove di minatori, giovani studenti e liceali, operai, insegnanti... Insieme hanno portato avanti rivendicazioni chiare in merito alle politiche del lavoro e dell’investimento, alle questioni ambientali, ai servizi sociali o ancora contro la corruzione. È il movimento sociale più ampio, più democratico e più radicale che il paese abbia conosciuto da decenni.
Per timore che il movimento si estendesse ad altre regioni del paese, il potere tunisino ha cominciato col sottomettere il bacino minerario a un vero e proprio assedio poliziesco e militare.
In seguito ha dato la stura a una feroce repressione: sequestri, detenzioni arbitrarie, condanne pesanti, violente cariche poliziesche che hanno già provocato due morti… Gli abitanti hanno tenuto duro, la loro determinazione e la loro solidarietà si sono rafforzate oltre ogni previsione e contro tutti i tentativi messi
in atto dal potere.
Giovedì 11 dicembre si è svolto il processo detto «dei 38» in cui i principali animatori del movimento sono stati giudicati per «associazione a delinquere costituita alfine di turbare l’ordine pubblico, di attentare alle istituzioni, alle strutture, ai beni pubblici e privati». L’udienza si è svolta in presenza di centinaia di poliziotti armati fino ai denti. Gli avvocati si son visti rifiutare tutte le richieste di produrre elementi o testimonianze a discarico, non c’è stata alcuna arringa, né deposizione dei testimoni, né requisitoria dell’accusa...
Dopo un’interruzione dell’udienza di dodici ore, il giudice si è presentato in aula in piena notte, visibilmente terrorizzato malgrado (o forse per?) la presenza di centinaia di agenti in civile e in uniforme. Ha annunciato che il verdetto era stato emesso, ma ha rifiutato di comunicarne i termini pubblicamente e si è ritirato tra le strofe dell’inno nazionale cantato dagli imputati e fra le proteste degli avvocati. In quella situazione, il principale portavoce del movimento, il sindacalista insegnante Adnane Haji ha dato il la con uno slogan, che è stato ripetuto a lungo: «Fermezza e determinazione di fronte al potere delle mafie!». Gli avvocati hanno dovuto recarsi in cancelleria per conoscere l’entità delle condanne emesse: fino a dieci anni e un mese di carcere per i sindacalisti, gli insegnanti, i disoccupati, gli operai e gli studenti che hanno avuto un ruolo propulsivo nel movimento. Dopo aver appreso il verdetto, il movimento ha ripreso le manifestazioni nella città di Redeyef, nonostante l’intensificarsi delle retate di polizia e l’aumento della
repressione, che ha portato a molti arresti.
«Fino a quando dovremo vivere in stato di assedio? Cosa sta succedendo? Siamo forse a Gaza o a Falluja?», si chiede Slama-Hlaimi, «la polizia tratta i nostri figli come i sionisti trattano gli arabi».
Due dei suoi figli sono fra i condannati nel processo dei 38. Tarek, il maggiore, insegnante e sindacalista ha preso dieci anni e un mese; Harun, il più giovane, studente, sei anni. Entrambi sono sottoposti al carcere duro e hanno subito trattamenti simili alle torture. Due degli altri quattro figli di Slama-Hlaimi sono sempre a Redeyef, Moussa e Omar. Quest’ultimo, maestro elementare, portatore di un grave handicap fisico, è stato picchiato diverse volte, arrestato e condannato col beneficio della condizionale. Gli altri due, Muhammad e Abdallah, hanno dovuto partire per l’Europa per guadagnarsi degnamente da vivere e per mantenere la famiglia rimasta al paese. Oggi sono operai edili a Nantes, in Francia, uno di loro è ancora un lavoratore senza documenti.
I figli di Slama-Hlaimi sono come tanti altri giovani tunisini della regione mineraria o di altre regioni della Tunisia: l’alternativa per loro è di sottomettersi a una vita di povertà, disoccupazione e persecuzioni poliziesche oppure lottare. Che lottino contro un potere repressivo e corrotto al loro paese o che si battano contro le guardie di frontiera e contro i pericoli del mare in direzione di «Lambadouza» (Lampedusa), agli occhi dei loro cari sono combattenti per la giustizia e per la libertà.
Oggi, la situazione nel bacino minerario è sempre tesa. Dopo un primo rinvio, il 13 gennaio, gli abitanti aspettano la data del processo di appello dei 38 di Redeyef, prevista per il 3 febbraio.
Per tre settimane, la situazione sociale nella regione e nell’insieme del paese è stata scandita dall’ampiezza del movimento di solidarietà popolare nei confronti di Gaza, che le autorità hanno duramente represso. Nella regione di Gafsa, martedì 6 gennaio è stato organizzato uno sciopero generale di sostegno al popolo e alla resistenza palestinese. Uno sciopero molto seguito malgrado le misure ufficiali messe in atto per farlo fallire. Nelle manifestazioni che si sono moltiplicate in tutto il paese (dei liceali, degli studenti, dei sindacalisti, dei partiti e delle associazioni indipendenti, degli avvocati), gli slogan più frequenti univano l’omaggio al popolo palestinese di Gaza e quello agli abitanti del bacino minerario di Gafsa.
(Traduzione di Ermanno Gallo)

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